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IL MESSAGGERO
4 Gennaio 2006
LA GIUSTIZIA NON SIA MEDIATICA E LA POLITICA SEGUA L’ETICA
di FRANCESCO PAOLO CASAVOLA*

LE INTERCETTAZIONI telefoniche in cui compaiono parlamentari e uomini della banca e della finanza pongono problemi di carattere generale sotto un duplice profilo, della protezione della riservatezza delle comunicazioni private, e della deontologia degli uomini politici. Per il primo aspetto sarebbe auspicabile introdurre il principio che ogni informazione raccolta durante indagini giudiziarie a carico di chicchessia non dovrebbe essere indiscriminatamente resa di dominio pubblico. Per due ragioni, che i diretti interessati ne ricavano nocumento, non foss’altro che della propria immagine sociale, e poi che dalla vociferazione mediatica possono essere distorte le valutazioni degli stessi indaganti. Nel telaio del nostro sistema normativo vive un paradosso. La Costituzione proclama la presunzione di innocenza prima di una sentenza definitiva di colpevolezza, e poi si lasciano giudicare gli imputati presunti innocenti non da primi e secondi giudici, ma presunti colpevoli da giornali e loro lettori. Bilanciare due opposti principi, della dignità del cittadino, di cui si presume l’innocenza, e della informazione del pubblico, che si appella alla trasparenza e alla verità, non è facile. Ma è un nodo che una democrazia eticamente adulta deve poter sciogliere. Cominciamo dalla informazione, cui viene da rivolgere la domanda di Pilato nel processo a Gesù; che cosa è la verità? Salvo il caso di pubblicazione di documenti, il cui valore probatorio e peraltro sub iudice, la verità mediatica è impastata di tanti argomenti deduttivi, sostenuti da sospetti e pregiudizi, che quella verità si snatura in menzogna. E’ forse preferibile il silenzio, o addirittura il segreto? Certamente no. Ma informare su quanto dello svolgimento di indagini è lecito divulgare, significa dare nuda notizia, non commenti e opinioni che danno luogo ad una giustizia parallela. Quanto alle intercettazioni in cui sia coinvolto un parlamentare, la protezione particolare che a costui spetta deve essere rigorosamente applicata. Ma veniamo al secondo profilo, della deontologia degli uomini politici, tutta da fondare. Non basta essere estranei a fatti configurabili come illeciti previsti dalla legge penale. Occorre stabilire fino a che punto le attività relazionali di un uomo politico siano pienamente giustificate dai suoi compiti. I partiti vivono nella società permeabili rispetto ad ogni forma della vita collettiva che la politica è chiamata a regolare. Nei partiti possono incistarsi gruppi di interesse, rappresentanze corporative, storiche organizzazioni di classe. La politica modera queste concrete presenze della vita economica e sociale, o ne è condizionata e guidata? Se si muove dal principio che la politica deve realizzare il bene della comunità e non interessi particolari, non si può che chiedere agli uomini politici di astenersi da legami, conoscitivi e collaborativi, tra gruppi e persone che perseguono fini speculativi, anche in sé legittimi, ma non finalizzati e riscattati da superiori interessi generali. Non si chiede certo agli uomini politici di essere eremiti, né ai partiti di essere conventi di clausura. Ma che la gara per le responsabilità democratiche sia leale, tra i partiti e le singole personalità che ne sono a capo. Le alleanze con potentati, maggiori o minori, dell’economia e della finanza, come dei media, altera la competizione politica, che deve avere come posta in gioco il consenso dei cittadini, senza neppur l’ombra di un asso nella manica. Specie se a sfilarlo possa essere un giudice.

*PRESIDENTE EMERITO DELLA CORTE COSTITUZIONALE
INES TABUSSO